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Prenota la tua bici oraCascina del Pavaglione: cosa c'è da sapere
La Cascina del Pavaglione è un luogo fenogliano d'eccellenza, qui viene ambientato il romanzo "La Malora" di Beppe Fenoglio.
Un tempo ambiente di lavoro e manovalanza langhetta, oggi è un luogo d'interesse culturale. Dopo la ristutturazione del 2006, vengono allestite 2 sale dedicate a eventi e mostre, ma non manca una ricca biblioteca, un laboratorio multimediale sulla vita di Fenoglio, una galleria fotografica e un'installazione di pitture dell'artista Berruti. Il Pavaglione è visitabile tutte le Domeniche (orario 10-13 e 14-18) da aprile a fine ottobre. L'associazione Terre Alte è il gestore e curatore della struttura.
Lettura consigliata:
Tratto da La Malora di Beppe Fenoglio
"Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sotto terra. Era mancato nella notte di giovedì l'altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m'aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c'era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel'avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po' su testa. Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia. Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento se m'avesse saputo così rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall'alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza. Invece tirai dritto, perché m'era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia. Mi fermai all'osteria di Manera, non tanto per riposarmi che per non arrivare al Pavaglione ancora in tempo per vedermi dar del lavoro; perché avrei fatto qualche gesto dei più brutti. Tobia e i suoi mi trattarono come un malato, ma solo per un giorno, l'indomani Tobia mi rimise sotto e arrivato a scuro mi sembrava di non aver mai lavorata una giornata come quella. Mi fece bene. Un po' come fa bene, quando hai lavorato tutta notte nella guazza a incovonare, non andartene a dormire ma invece rimetterti a tagliare al rosso del sole. Come la mia famiglia sia scesa alla mira di mandare un figlio, me, a servire lontano da casa, è un fatto che forse io sono ancora troppo giovane per capirlo da me solo. I nostri padre e madre ci spiegavano i loro affari non più di quanto ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan fatti nascere: senza mai una parola ci misero davanti il lavoro, il mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per me, l'andare da servitore. Non eravamo gli ultimi della nostra parentela e se la facevano tutti abbastanza bene: chi aveva la censa, chi il macello gentile, chi un bel pezzo di terra propria. L'abbiamo poi visto alla sepoltura di nostro padre, arrivarono ciascuno con la bestia, e non uno a piedi da poveretto. Dovevamo sentirci piuttosto forti se, quando io ero sugli otto anni, i miei tirarono il colpo alla censa di San Benedetto. La presero invece i Canonica coi soldi che s'erano fatti imprestare da Norina della posta. Nostro padre aveva troppa paura di far debiti, allora. Adesso mi è chiaro che nostro padre aveva già staccata la mente dal lavorare la terra e si vedeva già a battere con carro e cavallo i mercati d'Alba e di Ceva per il fabbisogno della sua censa, e quando dovette invece richinarsi alla terra, aveva perso molto di voglia e di costanza. Noialtri ragazzi lavoravamo sempre come prima, anche se lui ci comandava e ci accudiva meno, ma a mezzogiorno e a cena ci trovavamo davanti sempre più poca polenta e quasi più niente robiola. E a Natale non vedemmo più i fichi secchi e tanto meno i mandarini. Nostra madre raddoppiò la sua lavorazione di formaggio fermentato, ma non ce ne lasciava toccare neanche le briciole sull'orlo della conca. E quando seppe che a Niella ne pagavano l'arbarella un soldo di più che al nostro paese, andò a venderlo a Niella, e saputo poi che a Murazzano lo pagavano qualcosa meglio, si faceva due colline per andarlo a vendere lassù. Dimodoché diventò in fretta come la sorella maggiore di nostro padre, sempre col cuore in bocca, gli occhio troppo lustri o troppo smorti, mai giusti, in faccia tutta bianca con delle macchie rosse, come se a ogni momento fosse appena arrivata dall'aver fatto di corsa l'erta da Belbo a casa. Quando noi eravamo via, lei pregava e si parlava ad alta voce: una volta che tornai un momento dalla terra, la presi che cagliava il latte e si diceva: - Avessi adesso quella figlia! - Diceva di nostra sorella, nata dopo Stefano e morta prima che nascessi io, d'un male nella testa. Si chiamava Giulia come nostra nonna di Monesiglio, e a Stefano non so, ma a me e a Emilio non ci mancava. Però anche allora io non sono mai passato davanti al camposanto guardando da un'altra parte, come un padrone che passa davanti alla sua terra. Ci andava male: lo diceva la misura del mangiare e il risparmio che facevamo della legna, tanto che tutte le volte che vedevo nostra madre tirar fuori dei soldi e contarli sulla mano per spenderli, io tremavo, tremavo veramente, come se m'aspettassi di veder cascare la volta dopo che le è stata tolta una pietra. Finì che nelle sere d'autunno e d'inverno mandavamo Emilio alla cascina più prossima a farsi accendere il lume per avanzare lo zolfino. Io ci andai una volta sola, una sera che Emilio aveva la febbre, e quelli del Monastero m'accesero il lume, ma la vecchia mi disse: - Va', e di' ai tuoi che un'altra volta veniamo noi da voi col lume spento, e lo zolfino dovrete mettercelo voi. Nostro padre vendette mezza la riva da legna e anche quel prato che avevamo lungo Belbo, ma il denaro di quelle vendite non ci fece pro, andò quasi tutto a pagare le taglie e a far star bravi i Canonica che non ci togliessero il credito alla censa. E' allora che i nostri s'indebitarono con la vecchia maestra Fresia di quelle cento lire che hanno poi scritto il destino di mio fratello Emilio."
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Dove si trova Cascina del Pavaglione
Galleria Fotografica
Cascina del Pavaglione
Indirizzo:
Località Ciocchini, 18Novello